Nel Nuovo Testamento, negli Atti degli Apostoli, pur senza utilizzare il termine “agape”, si descrive lo spirito delle prime comunità cristiane:
“Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune… spezzavano il pane insieme con gioia e semplicità di cuore.” (Atti 2,42-46)
Le prime comunità cristiane si riunivano nelle case dei fedeli (le domus ecclesiae), poiché non esistevano ancora edifici dedicati al culto. In questi spazi privati si celebrava l’agape, un termine greco che significa amore fraterno, gratuito, universale.
Le agapi si svolgevano di sera, in segreto, per evitare le persecuzioni, nelle case più ampie che le famiglie più agiate mettevano a disposizione. Uomini e donne, anziani e bambini, schiavi e liberi, poveri e ricchi, gruppi familiari si riunivano attorno allo stesso tavolo.
Durante l’agape:
- si celebrava l’Eucaristia;
- si condivideva il cibo portato da ciascuno;
- si pregava e si ascoltavano letture sacre;
- si raccoglievano offerte per i bisognosi;
- si viveva una fraternità senza gerarchie.
Questi incontri riflettevano una visione comunitaria della fede: pluralità persone che condividevano case, risorse, cura, legami affettivi profondi e una vita quotidiana intrecciata. Alcuni dei credenti vivevano in comunità o in case condivise, aiutandosi a vicenda, sia che fossero singoli o famiglie.
Plinio il Giovane (inizi II sec.) riferisce che i cristiani:
“Si riuniscono per un pasto innocente e cantano inni a Cristo come a un dio.”
(Epistole, X,96)
Tertulliano (III sec.), nelle sue opere, sottolinea la dignità delle agapi:
“Le nostre agapi hanno più a che fare con il rispetto che con l’eccesso”,
distinguendole dai banchetti mondani dell’epoca.
San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi (cap. 11), denuncia le distorsioni dell’agape, criticando chi arriva ubriaco o mangia da solo, tradendo lo spirito comunitario di condivisione.
Sant’Ignazio di Antiochia (fine I – inizi II sec.), nella Lettera agli Smirnesi (8,1), richiama la necessità di celebrare l’Eucaristia e le agapi in comunione con il vescovo, segno di unità ecclesiale:
“È bene riconoscere l’Eucaristia, affinché non si celebri né agape né altra cosa senza il vescovo.”
Clemente di Alessandria (fine II – inizio III sec.), nel Pedagogo (II,1), mette in guardia dalle degenerazioni delle agapi, vissute da alcuni come occasione di eccesso:
“Alcuni non si radunano più per onorare Dio, ma per abbuffarsi e ubriacarsi.”
Ma la sua critica mostra quanto queste pratiche fossero ancora diffuse e partecipate.
Con la progressiva istituzionalizzazione della Chiesa, le agapi iniziano a essere regolamentate e poi vietate. Il Concilio di Cartagine (397 d.C.) ne decreta la soppressione. Si passa da una Chiesa comunitaria domestica a una struttura più formale e gerarchica, con luoghi di culto appositi, liturgie regolate e spazi distinti per uomini e donne.
Un’eredità da riscoprire
Le agapi dei primi cristiani mostrano una vita comunitaria basata sulla fraternità, sulla condivisione concreta e sull’amore vissuto nella pratica quotidiana.
Questo ci invita a riflettere su forme di convivenza attuali – come le polifamiglie – in cui più persone adulte scelgono di prendersi cura l’uno dell’altro, dei figli e del bene comune, in modo consapevole, stabile e affettuoso. Ma può ispirare anche le famiglie tradizionali, offrendo modelli cooperativi e solidali, e tutte le forme di coabitazione in cui si cerca un equilibrio tra individualità e mutuo supporto.
Recuperare queste esperienze storiche significa riconoscerne il valore umano e spirituale, e trarne ispirazione per costruire oggi relazioni più inclusive, rispettose e sostenibili.

